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01.10.2008 Olmert e la
pace in Palestina di Giovanni De
Sio Cesari
Il premier israeliano Ehud Olmert, in una intervista, ha
affermato che per ottenere la pace con l'Autorità Nazionale
Palestinese, Israele dovrà rinunciare pressoché a tutti i territori
occupati in occasione della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, compresa
Gerusalemme Est.
Ha anche dichiarato: “Manterremo nelle
nostre mani una percentuale di quei territori ma dovremo cedere ai
palestinesi una percentuale analoga di territorio dello Stato
d'Israele, perché altrimenti non ci sarà alcuna pace. Io penso che
siamo molto vicini a un accordo ma bisogna prendere una decisione,
ed è una decisione difficile, terribile. Una decisione che
contraddice i nostri naturali istinti, i nostri desideri più intimi,
la nostra memoria collettiva, le preghiere del popolo ebraico da
duemila anni".
Su questa presa diposizione sono piovute
critiche sia dalla destra religiosa, che da sempre sogna una
Palestina tutta ebraica, sia dalla sinistra, che si chiede perché
una tale posizione sia tanto tardiva.
In realtà proprio
perché ormai Olmert è dimissionario e fuori dal gioco politico può
dire, senza tema di contraccolpi sul quadro politico, ciò che tutti
in realtà sanno: non c’è altro modo di ottenere la pace in Palestina
che rinunciare a tutti o quasi i territori occupati nel 1967.
Israele non ha mai affrontato realmente questo che è il nodo
centrale della questione, affermando che i Palestinesi comunque non
volevano la pace ma la distruzione di Israele e che quindi ogni
negoziato era impossibile fino a che i Palestinesi avrebbero
realmente, e non solo formalmente, riconosciuto il diritto di
Israele ad esistere.
Il fallimento dei negoziati con
l’allora leader Arafat, in buona parte dovuto proprio
all’intransigenza israeliana e lo scoppio della cosi detta Seconda
Intifada avevano, comunque, nei fatti, resi impossibile negli ultimi
otto anni negoziati di pace e fatta aumentare la tensione in tutto
il medio oriente: anche l’11 settembre faceva riferimento alla
situazione in Palestina
Ma ora la Seconda Intifada sembra
finita. L’obbiettivo palestinese era seminare panico e insicurezza
nel territorio di Israele: per qualche anno in effetti ci sono
riusciti. Poi i controlli sempre più stretti e asfissianti hanno
impedito attentati all'interno. Sono rimasti i missili Kassam più
simbolici che dannosi. Prima hanno abbandonato la lotta nella West
Bank, solo Gaza ha continuato a lungo: ma le incursioni sanguinose e
soprattutto il blocco hanno reso la vita della gente sempre più un
incubo insostenibile. Alla fine anche HAMAS ha finito con il dire
che i Kassam "sono contro l'interesse nazionale". Se lo avesse fatto
qualche anno prima si sarebbero risparmiati molti morti e immani
sofferenze. Possiamo ammirare l'eroismo di Gaza che ha resistito
oltre ogni limite o pensare che lottare quando appare chiaro che non
c'è speranza di vittoria sia solo fanatismo.
Ma comunque la
lotta per il momento è finita: ora la palla passa nel campo di
Israele: se sarà in grado di contenere le spinte radicali religiose
e rinunciare alle terre occupate nel 1967 si potrà avviare un serio
processo di pace altrimenti bisognerà prepararsi alla prossima
inutile guerra. Già gli avvenimenti in Siria, con il sanguinoso
attentato di qualche giorno fa a Damasco, sono il segno della
riapertura dei giochi interni al mondo arabo fra sciiti e sunniti,
fra estremismo e moderazione. Per il momento, in attesa della
formazione di un nuovo governo in Israele e delle elezioni
presidenziali americane, tutto resta fermo ancora per qualche mese:
bene ha fatto Olmert a cominciare a porre la
questione.
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