Dilaga in Hong Kong la “rivoluzione degli ombrelli” dall’oggetto che i manifestanti portano nelle manifestazioni: malgrado il richiamo degli stessi organizzatori di moderare le richieste e la altrettanta moderazione mostrata dalle forze dell’ordine. Sembra che tutte e due le parti temano che la situazione possa sfuggire di mano e innescare un crisi dalle conseguenze imprevedibili. Le manifestazioni richiamano inevitabilmente alla memoria quelle di piazza tien an men dell’89 finita tragicamente con l’intervento dell’esercito. L’oggetto del contendere sono le elezioni del 2017 : il governo centrale cinese pretende che i candidati siano approvati a una apposita commissione di 1400 membri mentre i manifestanti vorrebbero elezioni del tutto libere sul modello occidentale. Al di la della disputa particolare, la questione di fondo è la persistenza dell’ordinamento democratico di stile occidentale di Hong Kong nell’ordinamento generale della Cina che è invece a partito unico (partito comunista cinese) Per comprendere la questione occorre qualche riferimento storico. Hong Kong divenne colonia britannica in seguito alla guerra dell’oppio del 1842: costituì sempre quindi una profonda ferita dell’orgoglio cinese, un simbolo delle umiliazione che il Zhōngguó .grande “impero di mezzo” aveva dovuto subire dai “barbari venuti dal mare”. Per un secolo e mezzo quindi Hong Kong, la cui popolazione fu sempre in stragrande maggioranza composta da cinesi provenienti dai territori limitrofi e da tutta la Cina, visse all’ombra degli ordinamenti britannici che furono estesi anche a quel territorio. L’ordinamento politico giudiziario e dello stato in generale è tuttora una quasi copia di quello inglese. A un certo punto l’Inghilterra, comunque, riconobbe la sovranità della Cina sul territorio che divenne effettiva nel 1999 quando un reparto dell’armata rossa cinese prese simbolico possesso del territorio innanzandovi la bandiera. Tuttavia gli accordi prevedono che, pur sotto la sovranità della Cina, Hong Kong avrebbe mantenuto la sua autonomia e i suoi ordinamenti fino almeno al 2047 con la formula empirica di “uno stato e due ordinamenti”: solo difesa e politica estera diventavano competenza del governo centrale. In concreto nulla cambiava a Hong Kong che continua quindi a governarsi autonomamente con gli ordinamenti importati dall’Inghilterra. Si tratta quindi di un altra Cina che non ha conosciuto i travagli, le tragedie, i rivolgimenti politici del resto della Cina, una specie di Inghilterra dagli occhi a mandorla, possiamo dire. Fino quando potrà mantenere questo suo status singolare, unico al mondo? Il governo cinese può essere preoccupato dell’effetto contagio. Magari nel 2047 non sarà Hong Kong ad adeguarsi agli ordinamenti della Cina ma al contrario sarà la Cina tutta ad adeguarsi a quelli di Hong Kong. Questo è già avvenuto dal punto di vista economico dove, sostanzialmente, la Cina ha abbracciato il capitalismo vigente a Hong Kong e non il contrario. La prospettiva certo non entusiasma il governo cinese che vorrebbe limitare in qualche modo l’autonomia e il pericolo di contagio e d’altra parte gli abitanti dell’ ex colonia temono di essere risucchiati dalla grande madre patria: nella parte più colta ed evoluta, quella degli studenti appunto, scende in piazza e protesta. Le forze in campo sono però impari. Hong Kong conta circa 7 milioni di abitanti, circa solo il 0,5 % della popolazione cinese e nessuno all’estero si arrischierebbe a un conflitto con il gigante asiatico. D’altra parte la Cina non ha interesse ad esacerbare la situazione sia per motivi interni sia per prestigio internazionale . Da qui la moderazione da ambedue le parti, l’unica via percorribile senza rischiare conseguenze difficilmente prevedibili. Per il momento il Remnin Ribao (quotidiano del popolo) minimizza gli avvenimenti, li stigmatizza come una minaccia al prestigio della Cina nel mondo e, soprattutto, avvisa con chiarezza e forza gli stranieri a non interferire in fatti interni della Cina di cui Hong Kong è pienamente parte .
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