Pubblicato da res publica : quaderni europei gennaio 2015
Comunismi non marxisti
Giovanni De Sio Cesari
Quando parliamo di comunismo, pensiamo ai vari regimi che nel secolo scorso si
ispirarono, più o meno direttamente, al pensiero di Marx. Tuttavia, il concetto
di comunismo è antico quanto il mondo stesso. Per comunismo si intende qui il
fatto che la proprietà viene attribuita non a una persona singola, ma alla
collettività, tranne ovviamente per gli oggetti strettamente personali (vestiti,
ornamenti).
Comunismo familiare
Nell’ambito della famiglia, la proprietà è collettiva, a partire
dall’abitazione, che appartiene a tutti i suoi membri, anche se c’è qualcuno che
la amministra. Varie però sono le strutture della famiglia nel corso dei tempi.
Attualmente, essa ha una struttura nucleare, composta da genitori e figli, anche
se poi vi sono stretti rapporti con gli altri parenti. Giuridicamente, nel mondo
moderno, la proprietà è assegnata ai singoli componenti, ma in sostanza
appartiene a tutti i membri: i genitori li amministrano, ma appartengono anche,
direi soprattutto, ai figli. Quando un figlio esce di casa, forma una propria
famiglia, anche da solo, ma in genere con un coniuge, e si forma un'altra
famiglia; le proprietà resta ai genitori, anche se i figli poi le erediteranno.
Nel passato, la famiglia era allargata, nel senso che il figlio sposandosi
rimaneva con i genitori, e, soprattutto, la terra apparteneva a tutti. Poteva
quindi avere molti membri e la direzione spettava al patriarca, cioè al
capostipite.
Comunismo primitivo
Si parla di comunismo dei primitivi, dei popoli allo stato di natura, e talvolta
si contrappone il "buon selvaggio" alla nascita della proprietà privata come
fonte di ogni male (Rousseau) e in modo tanto più articolato in Marx. Più
modernamente, non si parla di primitivi o di selvaggi, ma di popoli raccoglitori
che vivono dei prodotti raccolti dalla terra, di caccia e di pesca.
Effettivamente considerano la terra (o il mare, il fiume, ecc.) come la madre
che nutre e non concepiscono che si possa essere proprietari di un pezzo di
terra; particolarmente noti a livello mediatico sono i pellerossa.
Tuttavia, in effetti,
non vi è proprietà perché non c'è nulla da possedere. È con l'agricoltura,
infatti, che nasce la proprietà, poiché la terra non è più qualcosa di naturale
a disposizione di tutti, come l'aria o l'acqua, ma viene messa a coltura con il
lavoro di generazioni, faticosamente coltivata, e quindi i suoi prodotti sono
ovviamente proprietà dei produttori.
Si aggiunga poi che i prodotti possono essere conservati; con la nuova
organizzazione si costruiscono città, palazzi, templi, strade e così via, e
quindi tutti i beni possono essere comuni o privati. Il comunismo primitivo è
quindi, in effetti, la mancanza di beni da possedere e i problemi della
proprietà si pongono quando tali beni cominciano ad essere prodotti.
Società agricole
Nella società agricola, alcuni beni sono considerati pubblici (strade, mura
cittadine, templi) e altri privati, soprattutto la terra, fonte primaria di ogni
ricchezza. Nasce quindi il problema della terra: talvolta essa appartiene a
quelli che la coltivano (coltivatori diretti), ma con il tempo, quasi
inevitabilmente, la proprietà diventa solo di alcuni, spesso pochi, che non la
coltivano ed essa viene coltivata da altri in cambio di una parte dei prodotti,
di un salario e anche da schiavi, considerati anch'essi proprietà.
La società si divide quindi in ricchi (aristocratici, patrizi, feudatari),
proprietari di terre, e in lavoratori, la stragrande maggioranza poveri, spesso
molto poveri. La situazione appare quindi come un'ingiustizia e si prefigura un
ordinamento comunista nel quale si pensa che, abolendo la proprietà, si possa
costruire una società giusta, concetto questo vivo fino ai nostri giorni.
Si nota che nelle società agricole esiste anche l’artigianato e il commercio,
che hanno caratteri diversi, talvolta molto importanti (comuni italiani del
medioevo): i proprietari non vivono in questo caso, di redditi prodotti da
altri, ma sono essi stessi a promuovere la propria ricchezza, prefigurando
quindi una società moderna.
In generale però,
tutta la struttura della civiltà agricola è stata caratterizzata da proprietari
ricchi e lavoratori poveri. I proprietari prelevavano una parte dei prodotti ai
contadini e, dato il piccolo numero di proprietari, essi avevano grandi
ricchezze, vivevano nel lusso e, diciamo, nell'ostentazione, mentre la grande
massa viveva nella miseria.
Bisogna anche considerare che l’entità della parte prelevata dai proprietari
poteva o meno mantenere un equilibrio generale. Non mancavano poi i coltivatori
proprietari aiutati da braccianti (in Russia, kulaki). In questa situazione,
nella storia, le rivolte popolari erano ricorrenti, soprattutto in Cina.
Tuttavia, tali rivolte non avevano propriamente un modello economico-politico da
proporre e attuare, e quindi, anche quando erano vincenti, si esaurivano
rapidamente.
Bisogna tener conto che la povertà generale dipendeva dalla scarsezza della produzione; anche senza i lussi dei pochi aristocratici, in effetti, la produzione era sempre la stessa e anzi il disordine e il caos creato dalle rivolte facevano ancora diminuire la produzione e quindi aumentare la povertà.
Il comunismo degli Inca
Sembra però che almeno una grande società agricola, quella degli Inca del Perù,
abbia avuto caratteri comunisti. Il governo assicurava il sostentamento di
tutti, assegnando la terra alla popolazione in base alle necessità e alla classe
di appartenenza, e si prendeva cura dei più deboli, come orfani, anziani e
malati.
A ogni comunità (ayllu) erano assegnate le terre da coltivare. Le terre erano
poi divise tra le famiglie in base al numero dei membri. Al momento del
matrimonio, veniva assegnato un appezzamento di terreno da lavorare che alla
nascita di ogni figlio veniva aumentato. Inoltre, vi era l’obbligo di vestirsi
allo stesso modo, mangiare lo stesso cibo: in pratica, ogni differenza economica
veniva livellata.
La popolazione maschile lavorava, a rotazione, per lo stato e consegnava ad esso
una parte dei prodotti; quindi non vi erano proprietari. Il governo così
riusciva ad assicurare il sostentamento di ogni famiglia e di tutti quelli che
fossero in difficoltà.
Se la società Inca, dunque, era fondata sull’idea di proprietà collettiva della
terra, va notato che i frutti del lavoro rimanevano a coloro che li avevano
prodotti. Le classi dirigenti erano mantenute comunque dai lavoratori, ma
anch'esse svolgevano un lavoro. Più che di uno stato comunista, sembrerebbe che
si possa parlare di uno stato sociale, simile a quelli moderni, nei quali le
tasse (circa il 40% del reddito) assicurano non solo il funzionamento generale
dello stato, ma anche e soprattutto il welfare (assistenza sanitaria, scuola,
sussidi, pensioni, ecc.).
Ovviamente però, il potere assoluto apparteneva all’Inca, figlio degli dei, e
non vi era nessuna traccia di democrazia.
Comunismo platonico
Un caso molto particolare è il comunismo teorizzato da Platone. Il comunismo dei
beni viene previsto solo per le classi superiori, per i filosofi (cioè i
governanti) e per i guerrieri, ma non per il resto della popolazione. Per
Platone, il comunismo dei beni e poi anche dei figli permetterebbe il pieno
impegno solo per lo stato, perché i ceti superiori non avrebbero alcuna
possibilità di accumulare beni e nemmeno di lasciarli ai propri figli. Possiamo
paragonarlo alla povertà personale dei monaci cristiani, che permette loro di
dedicarsi alla causa di Dio.
La teoria, in netto contrasto con la realtà del tempo, in cui i governanti erano
uomini ricchi, non ebbe nessuna attuazione.
Comunismo religioso
Spesso le piccole comunità religiose praticano un comunismo dei beni: così
avveniva nelle prime comunità cristiane ed è praticato fino ai nostri giorni
negli ordini monastici, nei quali non si ammette la proprietà personale, ma
tutto appartiene alla comunità religiosa.
Il fine era quello di liberare il singolo da preoccupazioni economiche affinché
potesse dedicarsi solo al servizio di Dio. Non è quindi un modo per organizzare
la produzione, ma semplicemente si vive delle rendite delle proprietà, a volte
ingenti, altre volte invece solo con la semplice elemosina dei fedeli (ordini
mendicanti). Si tratta di gruppi che si considerano famiglie e quindi, come per
ogni famiglia, i beni sono comuni. Si consideri poi che sono gruppi la cui
massima aspirazione sono i beni del cielo e il disprezzo dei beni della terra: è
tutto un altro problema rispetto a quello moderno dell’emancipazione dalla
povertà delle classi povere.
Conclusione
A noi pare che il punto essenziale che si desume da tutto il discorso sia che il
comunismo dei beni è possibile ed è realmente esistente solo in comunità nelle
quali i singoli hanno legami affettivi molto stretti, in pratica nelle famiglie
nucleari o estese che siano. Il sistema può essere poi esteso a gruppi a
carattere religioso che in effetti hanno anch'essi una struttura familiare e in
più sono rivolti ad esigenze spirituali e non a migliorare le proprie condizioni
economiche.
Le rivolte ricorrenti contro i ricchi nelle società agricole, anche quelle
pauperistiche (eresie medioevali, Taiping in Cina ), sono rivolte a correggere
le eccessive disuguaglianze sociali, assicurando a tutti una base economica
sufficiente. Nell’impero degli Inca, il progetto sembra essersi effettivamente
realizzato: non si tratta però di una comunione dei beni prodotti, che restano
ai produttori, ma di un equilibrio per cui a tutti i membri del popolo viene
assicurato un appezzamento di terra sufficiente e non è possibile possederne di
più, né avere un tenore di vita superiore a quello degli altri.
Nel secolo scorso, poi, sono apparsi i grandi esperimenti ispirati più o meno al
comunismo teorizzato da Marx (e anche da altri), ma sostanzialmente essi sono
tutti falliti tragicamente.
Ci pare allora che il punto centrale sia questo: in realtà non è possibile
pensare che ognuno possa lavorare solo per il bene comune, tranne che nelle
famiglie e in comunità simili, legate da naturali e stretti legami affettivi.
In economia, ciascuno
persegue il proprio interesse e, se non può godere del proprio prodotto,
l’impegno e l’iniziativa vengono meno e quindi l’economia non funziona. Non è
affatto vero che, come sosteneva Marx, la proprietà crea l’egoismo nell’uomo e
che quindi abolendola cadrebbero le catene dell’egoismo. È vero semmai il
contrario: che il naturale egoismo dell’uomo crea la proprietà e che esso è
insopprimibile, anzi, è la base di ogni progresso materiale ed economico. Senza
il desiderio di migliorare la propria vita, o meglio quella della propria
famiglia, l’uomo sarebbe rimasto nelle caverne.
Quello che è possibile, e di fatto avviene nelle società moderne dell’Occidente,
è che una parte del reddito venga prelevata in misura progressiva (da noi circa
il 40%) e redistribuita a quelli che ne hanno bisogno. In questo modo, da una
parte si salvano l’impegno e l’iniziativa, che creano prosperità, ma in qualche
modo si mantiene anche un certo equilibrio, se non proprio una giustizia, nella
società.
E infatti possiamo constatare come le nostre società occidentali siano, da una
parte, le più prospere e, dall’altra, quelle con meno persone in povertà.